08/07/16

Il quartiere di Leoncavallo: riflessioni a margine d'un giro turistico

Prosegue il viaggio tra i luoghi del romanzo La carezza del ragno

Il quartiere dove abita Leoncavallo è quello di san Giovanni ed è il mio quartiere di Roma d'adozione: a San Giovanni sono andata a scuola, attraversando mezza città sullo sferragliante trenino della Casilina (all'epoca ancora dotato di sorprendenti sedili di legno in tutto simili a quelli d'un qualunque treno de La casa nella prateria) e sempre qui ho abitato per la prima volta da sola, anche se in due case diverse.
La prima, quella della terrazza con i mirtilli alcolici, è svanita quasi subito, inghiottita nell'occhio del ciclone d'un acrimonioso divorzio, reso ancor più acrimonioso dal fatto che non c'era in realtà mai stato nessun matrimonio; la seconda, a tutti gli effetti la casa del mio cuore, alta sui tetti e con la finestra della cucina che guardava direttamente sulla basilica che il sole del tramonto tingeva di rosso, ha visto la nascita della piccola Julia, si è immediatamente dopo rivelata troppo piccola ed è stata lacrimosamente venduta, ma non credo ci abbia dimenticato, come noi non la dimenticheremo.
A proposito, com'è che ultimamente così tanti uomini svaniscono nel nulla subito dopo aver comprato casa con la loro donna, che quindi rimane da sola a gestire non solo il lutto della separazione, ma anche le bollette e la spartizione dei mobili? Una mia amica, dopo dieci anni di convivenza e il laborioso acquisto d'un appartamento con relativa ristrutturazione, è stata lasciata via email dal compagno, il quale le ha comunicato dall'altra parte del mondo - dove si trovava per lavoro - d'essersi reso conto che il silenzio e la pura luce dei ghiacciai gli bastavano per essere felice; qualsiasi altra forma di vita avrebbe potuto incrinare tale perfezione.
Un'altra, con due bambini, sta cercando d'affrontare il fatto che il marito, pur già impiegato e con uno stipendio a cinque stelle, ha intenzione d'accettare una proposta di lavoro che prevede un trasferimento di tre anni nel cuore della foresta brasiliana.
Un tipo di cui mi hanno raccontato ha aspettato che la fidanzata scegliesse e portasse a casa dodici sedie azzurro delavé con tavolo in tinta per la sala da pranzo, le ha fatte salire una a una con l'ascensore e sull'ultima ha appiccicato un biglietto con cui la salutava, è stato bello, grazie, per me nuovi orizzonti, parto domani per Edimburgo.
E io stessa, come sempre all'avanguardia, dieci anni fa sono stata lasciata dal mio fidanzato dopo soli tre giorni d'una burrascosa, delirante convivenza in cui i nostri principali motivi d'attrito erano stati la superiorità dei piatti di vetro su quelli in ceramica (ferma restando l'assoluta supremazia della porcellana) e il fatto che il suo nuovo lavoro l'avrebbe portato a dormire fuori casa cinque giorni su sette. Non che fosse in un'altra città: era in un altro quartiere.
E' come se all'improvviso svariati tizi senza spina dorsale, che fino a poco tempo fa si barcamenavano malmostosi, avessero trionfalmente individuato nel lavoro un magnifico, inoppugnabile stratagemma per darsela a gambe. Senza neppure il fastidio di dover atteggiare le espressioni del volto a una compunta rassegnazione: si lascia un biglietto, una telefonata sulla segreteria (succede, vi giuro), un'email, e via.
Non so. Capita che l'amore finisca, ma cercate, vi prego, cari fuggitivi, di preservarne almeno quel tanto che basta a dire addio di persona alle vostre compagne. La dignità personale, il semplice buon gusto e quello che mio padre chiamava “esser signori” (“Sii sempre un signore”, mi diceva, perché per lui si trattava d'un concetto astratto, senza distinzione di sesso, età, censo o religione, e credo avesse ragione) ve ne saranno grati, credetemi.
Tornando al quartiere di San Giovanni, come dicevo è in assoluto il posto di Roma che amo di più, e anche del mondo, forse. Per me rappresenta la libertà, il primo stipendio, i giri di shopping con le amiche o con mia madre al mercatino di via Sannio, i ristoranti cinesi con le vetrine di legno intagliato, le passeggiate con mio marito e mia figlia che sonnecchia nel passeggino e gli appuntamenti davanti scuola il sabato pomeriggio, sulla faccia tre dita di trucco spalmato dalla sorella maggiore.
Leoncavallo abita un po' sul confine, nel senso che il suo palazzo fa angolo con via Merulana e via Merulana è già oltre, è già centro, stazione, piazza Vittorio: ancor più rumore, traffico, possibilità. A via Merulana c'è il commissariato dove lavora e perciò l'ho voluto in qualche modo dividere, a far da spartiacque tra due mondi. Come ho già accennato l'interno del palazzo - col suo cortile vasto e raccolto, la casetta del portinaio dai tre scalini e la lampada accesa - non sono reali, nel senso che appunto della casa dove ho pensato di far abitare il mio commissario io conosco solo quello che si vede, ossia l'imponente facciata color burro e le finestre dalle imposte grigio cielo. L'interno è invece ricalcato su quello d'un paio di palazzi a due passi da piazzale San Giovanni, palazzi il cui aspetto dignitosamente umbertino e i cui portoni di legno lucido celano cortili fascinosamente popolari quanto quelli d'una commedia di Eduardo.
Alla prossima e buone letture.

Paola Rocco

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